24/04/2024

Fame e pane

24 Aprile 2024

Torino Crocetta

FAME E PANE

Carissimi confratelli, nell’ultimo periodo più volte -nel Vangelo del giorno- il Signore si è dichiarato a noi come il pane della vita (Gv 6,35.48), come un pane vivo, disceso dal cielo (Gv 6,51) e portatore di vita eterna (cf. Gv 6,51). Cristo ci ha rivelato che abbiamo bisogno di cibarci di Lui se vogliamo dimorare in Lui: Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui (Gv 6,56). Stare su questa pagina di san Giovanni ha suscitato in me delle domande: ho fame? Di cosa sono affamato? Di cosa siamo affamati? Sì, Cristo è il nostro pane, è la nostra carne, ma abbiamo fame di Dio?

Questi interrogativi mi hanno accompagnato in questo periodo. Ho preso ancor più consapevolezza che è vitale riconoscere i morsi della fame che ci sono nel mondo, nella Chiesa, nella Congregazione, nell’Ispettoria, nei giovani, nelle famiglie, nelle nostre comunità, nelle anime di chi incontriamo e nell’anima nostra. Abbiamo fame di semplicità, di umanità, di fiducia, di futuro, di abbracci, di pace, di perdono, di interiorità, di sogni, di temerarietà, di pensieri profondi, di passione, di speranza, di bontà, di silenzio, di fraternità, di sguardi buoni, di poesia, di padri. A volte ci basterebbero anche delle briciole di tutto questo per calmierare i crampi al cuore. Credo che sia una benedizione avere fame. È un richiamo a ciò che manca, un forte invito al cammino, un assalto a quelle dispense chiuse a chiave che conservano pani che con la loro assenza stritolano lo stomaco e fanno ansimare l’anima. Se non li conquisti, muori.

Qualche anno fa una ragazza mi scrisse: «La notte in cui mio papà morì io ero lì, fuori dalla terapia intensiva. Dopo averlo estubato e scollegato da tutti i macchinari, lo adagiarono su una barella e lo coprirono fino al collo con un lenzuolo bianco. Per la prima volta potevo conoscere mio padre morto. Mi ci sono buttata addosso. Ho abbassato un po’ il lenzuolo e ho appoggiato il mio viso sul suo cuore. Non batteva, credo. Anzi sicuramente non batteva. Ma io non c’ho fatto caso. Ho sentito solo il freddo della sua pelle. Ricordo di essermi voltata verso mia mamma chiedendole perché fosse così freddo. Mi son bastate le sue lacrime calde come risposta. Freddo. Ecco perché io non sopporto il freddo. Da allora non ebbi più un nome. Si esiste solo se c’è un padre che ti chiama per nome». Da anni cercava disperatamente un nome, un padre. Invano. Le lievi speranze si dissolvevano come quelle nuvole che ti illudono mostrando una figura che, dopo pochi attimi, non c’è più. Un giorno me lo chiese: «Mi dai un nome?». Io non avevo mai dato un nome a nessuno. Dare un nome è legarsi. È un’arte. È un atto che è uno scrigno. È mettere radici. Ricevere un nome è sfamare il desiderio d’esser di qualcuno. «Un padre è colui che dà un nome», mi disse. Provai a dirle che Dio riempie il vuoto. Inutile. Si sbaglia quando si dice che Dio riempie il vuoto; non lo riempie affatto, anzi lo mantiene appunto aperto e ci aiuta in questo modo a conservare l’autentica comunione tra di noi, sia pure nel dolore.1 Vi è un fascino lacerante nel vuoto provocato da un legame troncato. Il rischio è di colmarlo con qualunque cibo, pur di non sentire i suoi gemiti, i suoi strazi, il suo urlo. Ridare la possibilità di poter dire papà è offrire del pane. Un giorno le detti un nome. Uscì dal sepolcro. E fu resurrezione. Quel giorno mangiammo pane di paternità.

Mi chiedo quale pane diamo alla fame dei ragazzi. Come Don Bosco, bisogna imbandire la tavola con l’amorevolezza e la confidenza per porvi il pane della paternità. È varcando questa porta santa che la fame si fa affidamento, consegna, desiderio di un Padre che sarà per sempre, scoperta che esiste il Pane del Cielo. L’Eucarestia è il pane della vita, così reale che chi viene a me non avrà fame, mai!, dice Gesù (Gv 6,35). Don Bosco lo sapeva bene, cosciente che possiamo dare solo quello che abbiamo. Così raccontò Don Luigi Orione: Don Bosco si è fatto santo perché nutrì la sua vita di Dio, perché nutrì la vita nostra di Dio. Alla sua scuola imparai che quel santo non ci riempiva la testa di sciocchezze, o di altro, ma ci nutriva di Dio, e nutriva sé stesso di Dio, dello spirito di Dio. Come la madre nutre sé stessa per poi nutrire il proprio figliuolo, così Don Bosco nutrì sé stesso di Dio per nutrire di Dio anche noi.2 Dobbiamo sfamare la nostra anima se vogliamo abilitare i giovani ad arare la fame di senso che li macina. Me lo chiedo ancora e lo chiedo anche a voi: quale pane diamo alla fame dei ragazzi?

Con umiltà e onestà dobbiamo innanzitutto vagliare la fame che ci abita per discernere di quali pani abbiamo veramente bisogno. Confondere la fame significa confondere il pane. A volte mangiamo del cibo che non sazia perché non ha il sapore di quell’Oltre che umanizza e sfama. Il profeta è normalmente sbilanciato sull’Oltre,3 è un uomo che si nutre dell’Oltre. Abbiamo bisogno di pani impastati con il cuore di Dio per affrontare la fame di infinito del mondo; di pani lievitati nel forno dei sogni dei giovani per essere reali e concreti; di pani capaci di ravvivare la temerarietà e il desiderio di osare; di pani in cui il lievito non ha paura di salire a Gerusalemme. Talvolta rischiamo di nutrirci di beghe inutili, di falsi problemi, di relazioni sgrammaticate, di visioni scariche di speranza, di gestioni in cui l’anima è un francobollo, di rancori che son tumori. E la fame rimane, aumenta. Spacca. La carestia che oggi sembra albergare nella Chiesa è una sfida, una occasione, è apertura all’inedito e non un principio di resa. Forse si tratta di ripartire dal seme ancor prima che dal pane: Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto (Gv 12,24). Per giungere alla panificazione non possiamo sottrarci alla legge della “coltivazione”. Essa esige sacrificio, tempi di attesa, pazienza e perseveranza nei momenti in cui le cose non sembrano andare come previsto. Il pane della speranza dipende dalla nostra personale capacità di coltivare la nostra umanità.4 Allo stesso tempo la nostra generazione di discepoli può sognare una testimonianza missionaria che raccoglie le briciole di sé stessa per farne un pane da condividere in modo sempre più discreto e dimesso.5 Si tratta di panificare partendo dalla kenosi, dal basso, dalle piccole cose, dalle briciole, dalla mendicanza. Ma avremo ancora fame? Credo che partendo da questo punto, la rinuncia a noi stessi, la fame dell’umanità, e la nostra in primis, si purificherà e nobiliterà fino a rivelarsi fame di Dio. Un’ultima cosa. Nel ritiro spirituale vissuto nell’ottobre scorso a Creţoaia dai confratelli di Bacau, Chişinău e Costanza, il predicatore, il sig. Emilio Dalla Lana, ha condiviso: «Tante volte ho fatto l’esperienza che un ragazzo, se si sente voluto bene, risponde». Il voler bene è un pane che fa miracoli, che apre i cuori, che ti fa sentire unico. È il dono che fa il Buon Pastore: Gesù non è solo un bravo pastore che condivide la vita del gregge; Gesù è il Buon Pastore che per noi ha sacrificato la vita. [...] Valgo il prezzo infinito della sua vita.6 Gesù ha visto la fame e si è fatto pane. Donaci, Signore, Fame e Pane.

don Igino Biffi

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1 Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, San Paolo 1988, p.246.

2 Francesco Motto, Ripartire da don Bosco, LDC 2007, p.32. Don Orione si espresse così il 17 gennaio 1934 rivolgendosi ai suoi chierici.

3 Fratel MichaelDavide Semeraro, La Chiesa che morirà. L’arte di raccogliere i frammenti per impastare nuovo pane, San Paolo 2023, p.83.

4 Ibidem, p.92.

5 Ibidem, p.89.

6 Papa Francesco, Regina Caeli, 21 aprile 2024.